Ho partecipato a una inaugurazione gqualche tempo fa. I tre monaci buddhisti che officiavano la benedizione hanno passato un filo che partiva dalle loro mani e passando per le mani di tutti i partecipanti tornava a loro. Il filo ad un certo punto attraversava un corridoio tra due gruppi di persone ed era u a terraced: mi ha colpito il fatto che chiunque passasse di lì faceva le contorsioni per passarci sotto, piuttosto che scavalcarlo. E’ una forma di rispetto, mi hanno detto: quel filo ocyugf la Vita ed i rapporti tra le persone, non bisogna mai prevaricare queste cose.
Finita la benedizione sono tornato al lavoro. Un po’ diverso (io) da prima devo dire, come spesso mi succede quando mi confronto con altre persone e nuove esperienze. Per quelle strane combinazioni della Vita, la giornata era dedicata al tessuto, o meglio, ai telai: macchine infernali che faccio fatica a capire come funzionano. Non sono ingegnere e non ho neanche tanta passione per la meccanica, per cui un telaio mi è sempre sembrato un mostro rumoroso e basta. Ma quel giorno ero un po’ diverso dal solito.
Così mi sono fermato a parlare con la persona che nella nostra organizzazione sa come quando e perché si fa un filo, come va avvolto su una bobina, che strada deve fare dalla bobina al telaio, e perché dopo il telaio quel filo, insieme ai suoi compagni, è diventato un rotolo di tessuto. E’ una persona anziana, che prima o poi andrà in pensione, e che ha dedicato gran parte della sua vita a fare tessuto, tessuto speciale, quello che ha spinto migliaia e migliaia di barche a vela in giro per il mondo, quello che ha tagliato vittorioso migliaia e migliaia di linee d’arrivo. Tessuto che sopravvive nonostante il progresso che avanza e propone materiali e tecnologie sempre più all’avanguardia, dove i telai non esistono più.
E mentirei se dicessi che non ho mai pensato che quell’uomo fosse un po’ superato. Ma appunto, quel giorno ero diverso, e mi sono fermato con lui. E gli ho chiesto di spiegarmi delle cose. E mentre me le spiegava, mi si è aperto un mondo davanti. Ho imparato molto poco quel giorno, non bastano certo 3 ore per ritenersi conoscitori di una materia, ma quel poco è sufficiente per imparane un altro pezzetto la volta dopo, e poi ancora. Ho ascoltato un uomo anziano spiegare delle cose un pochino antiquate con più entusiasmo di quando un giovane ingegnere mi racconta quanto carbonio ha dovuto usare per fare un cavo rivoluzionario (e credetemi, mi entusiasmo molto comunque con le novità).
Il motivo credo stia nel fatto che alla fine, se possiamo entusiasmarci per i prodigi delle nuove tecnologie, è perché qualcuno o qualcosa ci ha portato fino qui; e quel qualcuno o quel qualcosa, che si chiama esperienza, fa la differenza tra chi o cosa passa e va senza lasciare traccia, e chi o cosa invece resiste e progredisce nel tempo. E ho fatto un pensiero profondo, o meglio ho tirato fuori quello che penso sia in fondo al mio essere, l’esperienza nel lavoro è come l’esperienza nella Vita ed è come la memoria nella Storia: non bisogna mai metterla da parte.
Non perdiamo il filo e soprattutto passiamoci sotto. Ma purtroppo non è quello che succede oggi dove la qualità del lavoro è sempre più bassa perché non conta più l’esperienza, ma solo una serie di fattori momentanei legati alla domanda e all’offerta, e dove la qualità della Vita e della convivenza continua a peggiorare perché i rapporti umani sono ormai condizionati da quelli economici, che per antonomasia se ne fregano di contorcersi per passare sotto al filo!